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Evangelion su Netflix e il potere del pubblico – Le Voci dell’Idra

Evangelion è su Netflix e Internet è esploso. Non basta un solo autore, ce ne vogliono almeno tre! Orgoglio Nerd è una redazione composta da tante persone, vecchie e nuove, che una volta ogni tanto accoglie nuove voci al suo coro. Tuttavia questo coro è spesso molto dissonante: si sa, tutti abbiamo delle opinioni molto ben radicate, e la nostra preziosa linea editoriale, che ci offre un faro di luce per non perdere la direzione, non sempre è abbastanza per evitare che si scatenino discussioni anche assai incandescenti. Da diversi mesi, ormai, abbiamo trovato il modo di rendervi partecipi di questa irrinunciabile parte del nostro processo creativo: la rubrica Voci dell’Idra, quella che state leggendo proprio ora. Tutte le volte che incappiamo in un tema che sappiamo di voler trattare, ma che non riusciamo a sintetizzare in una posizione comune, semplicemente smettiamo di provarci, e invece affidiamo a tre redattori il compito di esprimere la propria voce, alla prima persona singolare, in questo strano “editoriale triplo”.

Evangelion e le battaglie di/con il pubblico

evangelion netflix

Qual è, dunque, il tema che ci ha tanto stuzzicato? Il casus belli è da rintracciare nella faccenda che ha riguardato l’adattamento di Cannarsi dell’Evangelion di Netflix, le reazioni del pubblico e soprattutto le reazioni di Netflix stessa alle reazioni del pubblico. Abbiamo diligentemente pubblicato un articolo per il giorno della messa in onda della serie…che non avevamo ancora guardato, quindi non eravamo affatto consapevoli di quello che sarebbe successo. Quindi il nostro primo articolo era un po’ un amarcord, una contestualizzazione storica di Evangelion e della sua prima messa in onda italiana. In molti ci avete chiesto di rimettere mano a quell’articolo, ma non l’abbiamo ritenuto necessario. Piuttosto ne abbiamo scritto uno nuovo, dopo che la vicenda del nuovo adattamento era proseguita. Le conversazioni che sono nate in questo periodo sono, più o meno subito, sfociate in una domanda più grande, più vasta: quale dev’essere il ruolo del pubblico nel mondo dell’intrattenimento odierno? E’ legittimo per il pubblico richiedere, perfino pretendere che gli autori intervengano sulle proprie opere per correggere ciò che viene percepito come uno sbaglio? O si tratta invece di un’ingerenza che autori e artisti dovrebbero ignorare? Abbiamo chiesto a Mattia Russo, Matteo Magherini e Gabriele Bianchi di dire la loro. Naturalmente, come sempre, scatenatevi nei commenti! Con chi siete d’accordo? Chi ha detto più fesserie?

Il commento di Matteo: il diritto di criticare

Chiariamo subito le premesse: non sono un artista.
Sono solo uno spettatore, e uno ignorante. Da campione della combinata salto sul divano-birra fredda-chromecast-Netflix, non conosco e non voglio parlare di dettagli tecnici.
Dopo l’esplosione del caso evaflix, però, mi sono cominciato a fare qualche domanda: ma io che ruolo ho quando guardo un’opera d’arte? Cosa posso dire? È giusto andare a criticare qualcuno che magari ha studiato anni per fare quella roba là, mentre io ero a risolvere le mie equazioni?

Risposta breve: certo.
Risposta lunga: sì, ma.

Come spettatore ho un unico diritto: lamentarmi. Come essere umano e destinatario di un’opera devo essere libero di esprimere qualsiasi opinione: m’è piaciuto, m’ha fatto schifo, è l’opera più bella di sempre, non comprerò mai più nulla di quel tipo là.
Siamo liberi di essere delusi, eccitati, amareggiati, incazzati. L’hype è tutto quello che ci resta, per dirla semplice. E, partendo da questo presupposto, esprimere qualsiasi giudizio su un’opera è un diritto inalienabile. Come farlo, però, è tutto un altro mestiere.
Cosa otteniamo innalzando una gogna mediatica per questo o quell’autore? Nulla. Nient. Nada. La critica sterile non porta a nulla, nessuno se ne fa niente dei ruggiti dietro le tastiere.
Possiamo essere spettatori ignoranti, non c’è bisogno di vedere dieci film di cinema russo per poter commentare La Città Incantata, ma non possiamo essere spettatori pigri. Fermarsi alla reazione di pancia, decidere che qualsiasi cosa vi fa schifo “perché sì” dovrebbe essere illegale in almeno venti stati diversi.
Bisogna fare le cose alla vecchia maniera. Scavare un attimino, picconare lo strato di rabbia e andare a capire perché abbiamo reagito in questo o quell’altro modo. Alla fine degli scavi, eccole che brillano un sacco di critiche interessanti per noi e per chi ha scritto-disegnato-diretto-scalpellato-dipinto quello che stavamo guardando.

Esempio pratico e vicino: Evangelion.
Apro Netflix, ballo Zankoku na tenshi no teeze, la coinquilina mi tira una ciabattata dalla sua stanza perché sono le 8 e io cantavo mentre lei stava dormendo.
Apostolo. Unità prima. Aspè, che ha detto quello? Che rob’è un testochilo? Uh, spé, a perdere tempo dietro al significato delle frasi non guardo i disegni. Basta. Spengo.

Respiro profondo.

Ma perché ho spento? Riaccendo, prendo appunti. Ok, la sintassi delle frasi, nonostante sia corretta, viene da un’altra epoca. Le parole ricercate cozzano con chi le pronuncia. Ho il cervello che gioca a ping pong tra i termini a cui ero abituato e i nuovi, non è piacevole.
È finita che ci ho scritto un pezzo, ne ho discusso con amici italiani e portoghesi e quando hanno tolto il nuovo adattamento ero quasi triste per la quantità di meme che sarebbero andati persi.

Un approccio di pancia, senza cercare motivazioni più profonde, non sarebbe stato d’aiuto a nessuno. Soprattutto non permette all’autore di capire cosa diamine ne pensa il suo pubblico.

E non è che un autore lo può ignorare, il suo pubblico, perché è un elemento fondamentale in qualsiasi forma d’arte.
So che con questa frase sono in prima linea per essere gettato nelle fosse comuni dell’internet, ma datemi l’opportunità di una piccola arringa, sono solo un villico.

Il pubblico è importante perché, guardando un’opera, la completa con qualcosa di suo.

C’è un esempio in cui è lapalissiano: il fumetto.
Apri la copertina, leggi la prima vignetta, non riesci a passare alla seconda e già sei entrato in azione. Hai riempito lo spazio vuoto tra le due vignette, e lo hai fatto tu, partecipando attivamente a quella graphic novel che ti sembrava tanto lontana da te.
Stesso discorso per la letteratura: lo scrittore ti dà degli input, ma sei tu a doverli collegare per arrivare ad un’immagine organica, sentire gli odori ed empatizzare con i personaggi.
La cosa diventa più complessa quando si parla di cinema, perché è una forma artistica “già servita”. Con il susseguirsi delle immagini vieni guidato, portato per mano evento dopo evento. La componente visiva è forte, limitando lo spazio di manovra per metterci del tuo. A conti fatti, però, usciti dalla sala ci ritroviamo sempre a discutere di quella scena, del significato di quella sequenza, di una parola, di una frase.
Il succo è questo: non è possibile trasmettere un concetto dalla mente dell’autore a quella dello spettatore. Non siamo telepatici ed è chi guarda l’opera finita che deve mettere insieme tutti i pezzi, usando i mezzi a sua disposizione. Ed ecco che escono fuori sfumature nuove che magari l’autore non si sognava neanche di infilarci.

Credo che per rendere qualsiasi opera d’arte completa il pubblico sia necessario. Deve entrarci dentro, metterla assieme. Chiariamoci: un artista non deve lavorare per il pubblico. Il pubblico non è la finalità, è un attrezzo del mestiere che arriva dove le mani non possono.
E non serve un pubblico di un milione di persone, ne basta una.

Siamo spettatori, l’unico diritto che abbiamo è quello di criticare quello che vediamo. Non ci si dovrebbero mai scordare che ci si mette l’anima per apprezzare un’opera d’arte.

Il commento di Gabriele: Questione di opinioni

Interrogarsi sul ruolo del pubblico nelle opere di intrattenimento a mio parere significa interrogarsi sul rapporto che il pubblico, cioè il fruitore di un’opera, ha con l’autore di quell’opera.

La dinamica “classica” (giusto per evitare il termine “normale”, che è un po’ carico) è molto semplice. Un autore crea un’opera e la offre al pubblico. Il pubblico la compra, ne usufruisce, e la giudica. Lo stesso autore crea una nuova opera, e il pubblico, anche sulla base del giudizio precedentemente formato sul lavoro di quell’autore, decide se premiarlo, comprando anche quest’ultima, oppure punirlo, qualora l’opera non sia piaciuta.

A questo si aggiunge un passaggio, che ritengo perfettamente sano e parte integrante di questa dinamica: dopo aver giudicato un’opera, il pubblico può esprimere pubblicamente il proprio parere, criticandola, tessendone le lodi, analizzandola nel dettaglio. E l’autore, a questo punto, è libero di decidere come reagire a queste critiche: farne tesoro per il futuro, accettarle per migliorarsi o ignorarle del tutto se ritiene, legittimamente, che l’opinione del pubblico non sia poi così importante. Accettando le conseguenze di quale che sia la sua scelta.

Quello a cui stiamo assistendo nell’ultimo periodo, un periodo che prende almeno sette o otto anni, a mio parere, è una grave deformazione di questa dinamica. Il pubblico non si limita più ad esprimere i propri giudizi, ma ha iniziato a convincersi che le proprie opinioni non siano affatto opinioni, ma fatti, e quindi ad aspettarsi che l’autore si senta in dovere di trattarli come tali. Se si inizia a considerare i propri pareri come qualcosa di più, come fatti, come verità, diventa sempre più improbabile che si possa concepire che qualcuno la pensi in modo diverso. Se questo qualcuno è l’autore dell’opera in esame, poi, l’intera dinamica che ho descritto più sopra va a farsi benedire, perchè l’idea che l’autore possa essere convinto delle proprie scelte che noi consideriamo sbagliate ci risulta assolutamente inaccettabile.

Di fronte a questo atteggiamento, quali scelte ha un autore? Purtroppo, e lo vediamo in modo sempre più spiccato, di fronte a questa contrapposizione e a questa ostilità sembra che le scelte si riducano a un dualismo del tipo cedere/resistere, laddove chi “cede” alle pretese del pubblico è visto come un malvagio sconfitto e costretto a correggere i propri errori, e chi “resiste” è un incompetente.

Il caso in questione è quello del nuovo adattamento di Evangelion per Netflix. La storia è nota: l’adattamento è…diciamo, molto diverso da quello che ci si aspettava, il pubblico è insorto e ha costretto Netflix a prendere provvedimenti, ovvero ad investire un notevole quantitativo di denaro per compiacere i propri clienti insoddisfatti. La reazione di Cannarsi alle critiche è stata decisamente molto arrogante (ricordate? “il pubblico passa, l’arte resta”), ma…in fondo, non posso non ritenerla perfettamente legittima. Fastidiosa, senz’altro. Ma legittima. E mi ricorda una reazione altrettanto arrogante ad un caso simile…proprio nel mondo di Evangelion. Parlo di Hideaki Anno, che ha difeso strenuamente il finale della serie dall’esercito di fan inviperiti, dicendo a lettere chiarissime che il pubblico è “solo” il pubblico, e non deve mettere becco nelle sue opere. La produzione, poi, l’ha bene o male costretto ad accontentare il pubblico, a girare un film per riscrivere il finale che non è piaciuto. E Anno cosa ha fatto? Un colossale dito medio nella forma di Death&Rebirth, un film praticamente studiato a tavolino proprio per scontentare il pubblico capriccioso.

Voglio citare un altro esempio, perchè credo sia un modo ideale per dimostrare le due diverse dinamiche di cui parlo (e perchè è un episodio molto vicino al mio cuore): Mass Effect. Come sappiamo, si tratta della straordinaria trilogia di videogiochi di ruolo di fantascienza creata dalla Bioware, che può vantare un pedigree d’eccellenza…e una delle comunità di appassionati più tossica del panorama videoludico. Mass Effect 1 è stata una rivelazione, un modo tutto nuovo di concepire il ruolo del giocatore, un’esperienza cinematografica senza precedenti. Mass Effect 2 è stato un capolavoro, ha raffinato e ridefinito tutte le intuizioni grezze del primo capitolo. Ma aveva un difetto, che il pubblico non ha proprio perdonato: uno dei personaggi principali, Liara, era presente solo come comparsa. La community di fan è esplosa, gridando allo scandalo, aggredendo con epiteti irripetibili gli sviluppatori del gioco. E questi cos’hanno fatto? Come descrivevo all’inizio di questo pezzo, hanno fatto tesoro della critica e ne hanno tratto insegnamento, pubblicando uno dei DLC migliori di sempre, L’Ombra, che è tutto dedicato al personaggio di Liara. Hanno pubblicato questo DLC a pagamento, s’intende, come è giusto che sia.

Ora parliamo di Mass Effect 3, e del suo finale (l’abbiamo già fatto all’epoca, qualora doveste essere interessati a un po’ di archeologia). Il finale non è piaciuto al pubblico, che ha frignato a voce abbastanza alta da costringere la Bioware a rifarlo. E’ stato prodotto quindi un DLC contenente un finale diverso, più in linea coi desideri dei fan. Ed è stato rilasciato gratuitamente. Come ho già avuto modo di dire all’epoca, questo è un sovvertimento totale della dinamica sana fra creatore e fruitore. Avallando le critiche del pubblico in maniera così plateale la Bioware ha sostanzialmente abdicato al proprio ruolo di autore dell’opera, accettando di essere soltanto il realizzatore dei desideri dei clienti. Lo stesso è avvenuto con il rifacimento del personaggio di Sonic nel film di prossima uscita, e così è avvenuto anche con la storia di Evangelion su Netflix.

Insomma. Quello che voglio sostenere non è che il pubblico debba starsene zitto ad accettare qualunque cosa gli venga propinata. Il pubblico può e deve avere un rapporto con gli autori delle opere, ma deve rendersi conto di quale sia il suo ruolo, quali siano i limiti, e deve accettare che le proprie opinioni siano solo delle opinioni. E’ giusto esprimerle, è giusto essere felici quando vengono recepite, ma non è giusto pretendere che vengano accettate a prescindere, perchè alla fine…sono solo opinioni.

Il commento di Mattia: L’instaurazione del Regime del Terrore

Il potere al popolo rimane la forma di governo più giusta in linea teorica, ma nel passaggio alla pratica la questione di complica. Perché se arrivando ai fatti si passa il potere a masse di idioti, analfabeti funzionali (e non), fan accaniti, degustatori seriali, allora il controllo finisce per essere un mero esercizio di forza. Lasciando da parte l’aspetto politico, posso affermare senza remore che la democrazia digitale ha perso gran parte del suo fascino iniziale.

La grande esplosione del web ne ha allocato i poteri, trasferendoli ad un medium così veloce da risultare a volte incontrollabile. Se spingo una Ferrari oltre i 300 km/h ogni minimo errore sarà fatale. E così Internet si è trasformato da rivoluzione tecnologica a dominio incontrollato, dove TUTTI possono esprimere la loro idea, democrazia appunto. Ma tutti dove? Internet ha dato il diritto di parola universale anche dove non sarebbe lecito pensarlo. Il parere di un dottore ha un peso diverso di quello di una mamma (per quanto io possa voler bene alla mia). La conoscenza vince a mani basse contro l’esperienza, sempre. Eppure le parole di un nickname hanno lo stesso peso su uno schermo. Impensabile.

Impensabile che esistano petizioni da milioni di iscritti per rigirare l’ultima stagione di una serie o per toglierne un’altra da un palinsesto. Impensabile che le lamentele arrivino a cambiare il character design di un personaggio o il finale di un videogame. Come è impensabile che l’urlo di un doppiaggio non gradito ne metta in cantiere un altro. Io ho sempre saputo che il potere viene esercitato dal popolo, ma tramite rappresentanti liberamente eletti. È qui che sta la differenza. La massa non è in grado di esercitare un potere diretto. Troppo aleatoria nei gusti, nelle scelte, troppo incostante. Siamo essere umani, siamo fatti così. Perciò deleghiamo il potere a dei rappresentanti (si spera preparati al compito) che possano esercitarlo per noi.

Così quando accendiamo una tv, quando leggiamo un manga, quando guardiamo in streaming, noi deleghiamo il nostro potere. Lo affidiamo a registi, attori, produttori, sceneggiatori, grafici, artisti, mangaka, game designer, programmatori, direttori artistici, compositori e chi ne abbia più ne metta. Lo affidiamo a persone competenti che dell’opera sanno cosa farci. Se saranno completi ascolteranno i consigli della massa (prima e non dopo) e prenderanno le decisioni sul loro lavoro. I prodotti d’intrattenimento sono fatti per gli spettatori, non dagli spettatori. Due preposizioni che, a mio parere, cambiano tutto. Come se Kubrick avesse dato ascolto ai detrattori dopo l’uscita di Lolita o Arancia Meccanica. Non avremmo quei capolavori oggi.

Non dico che bisogna tacere e accontentarsi. Si deve esprimere un parere sull’opera, criticarla anche, ma chiedere di cambiarla è profondamente sbagliato. Sbagliato perché se i gusti son gusti nel momento in cui urlo come una scimmia e pretendo un cambiamento (gratuito) sminuisco il lavoro fatto finora. Lo valuto zero di fronte ad una mia pretesa (che le pretese siano milioni non cambia). E da che pulpito parlo? Da quello di un fan, un cliente dell’opera. “Il concetto ‘il cliente ha sempre ragione’ è stato inventato da un cliente” qualcuno diceva. Sì, ha ragione con cognizione di causa. Qui è assente, come il rispetto.

In democrazia si discute e si cerca di arrivare alla negoziazione. Lamentarsi per costringere ad un cambiamento mi ricorda una scimmia che lancia feci contro gli estranei per allontanarli. Alla fine entrambi saranno sporchi. Ottimo risultato.

Questa idea di poter decidere il destino delle opere secondo i gusti della massa deve finire. È sbagliato pensare di pagare e, di conseguenza, avere ragione. “Da un grande potere derivano grandi responsabilità” e così anche nell’esercizio del potere stesso. Sennò alla fine non è che ripercorrere un destino analogo alla Rivoluzione Francese: dopo la Repubblica illuminata viene il Regime del Terrore.

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