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Jeff Bridges: da L’Ultimo Spettacolo a il Settimo Figlio

In genere quando si racconta della carriera di un attore si rischia di incorrere nella stesura di una lunga lista della spesa che elenca in poche parole una moltitudine di film senza però esprimere il vero valore di quella pellicola e dell’attore che ha collaborato a crearla (senza nulla togliere a Wikipedia).
Noi di Orgoglio Nerd vogliamo prendere la lunga e onorata carriera di Jeff Bridges e scriverla a modo nostro, cercando di onorarne il significato in occasione del suo ultimo sforzo: il Settimo Figlio, del quale vi offriamo anche un dietro le quinte in esclusiva.
Jeffrey Leon Bridges nasce a Los Angeles il 4 dicembre 1949 da una famiglia che conta una percentuale di attori del cento per cento. Con la recitazione nel DNA ricopre i panni scomodi del predestinato apparendo fin in tenera età sul grande schermo.
Ancora giovane e ancora immaturo segue le orme di coloro che ammira maggiormente non sapendo che un giorno i ruoli si sarebbero invertiti.
Percorre tutte le tappe dell’adolescenza dividendosi tra la scuola e qualche apparizione televisiva. Diplomatosi entra a far parte della guardia costiera americana, ma il mostro di ingordigia e fama che ha ereditato dalla famiglia non gli permetterà di continuare questa strada, relegandolo (se cosi si può dire) al grande palcoscenico internazionale.
Diviene apprezzato da molti registi non solo per la sua bravura, ma anche per la sua reputazione professionale che si mostra seria, affidabile e disponibile (nonostante diversi problemi di droga abbiano macchiato i giorni della sua gioventù).  
Con delle premesse del genere si incammina timidamente verso la montagna del successo pronto per la sua scalata; infatti, come testimoniano gli anni a seguire, è solo questione di tempo prima che anche la grande critica lo noti e gli riconosca ciò che gli è dovuto.
Nel 1971 riceve la sua prima nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista per “L’ultimo spettacolo” di Peter Bodganovich. Seguiranno altre cinque nomination all’Oscar, due come miglior attore non protagonista (“Una calibro 20 per lo specialista” e “The Contender”) e tre come miglior attore protagonista (“Starman”, “Crazy Heart” e “Il Grinta”).
E cosi dalla sua prima nomination inizia la scalata all’olimpo delle stelle, sancendo definitivamente il punto di svolta che lo porterà ad essere uno dei migliori interpreti della sua generazione. 
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A differenza di altri attori sceglie di non ritagliarsi un suo spazio rendendolo un soffice antro sicuro, ma viaggia alla continua ricerca di un’avventura passando dalla commedia al drammatico, dalla fantascienza al western, dall’azione al thriller senza mostrare incertezze o rimpianti (anche nei suoi flop).
Trasforma la volontà di reinventarsi, di cambiare, di stravolgersi in un must lavorativo, scegliendo sempre ruoli che gli permettano di esplorare nuovi generi e nuove esperienze. 
E cosi ci ha regalato personaggi come il Drugo, trasandato protagonista de “Il grande Lebowski” (a detta di molti il miglior ruolo della sua carriera e anche il più sottovalutato), lo sceriffo Rooster Cogburn ne “Il Grinta” e il cantante country Bad Blake in “Crazy Heart”. 
Ruoli da emarginato, duro, stanco, vecchio, grintoso, malvagio, eroe, ladro, marito, alcolizzato, cantante e un’altra cinquantina che finirebbero l’articolo da soli.
E nonostante sul “red carpet” hollywoodiano sia stato premiato solo una volta, Bridges ha riempito i suoi quarant’anni di carriera con interpretazioni che di diritto hanno scavato un solco profondo nella memoria impedendoci di dimenticarli. 
Potremmo concludere parafrasando e metaforizzando (a modo nostro) una sua frase: se Jeff Bridges fosse un quadro avrebbe steso sulla sua tela bianca un’infinità di colori, ognuno rappresentante un determinato periodo della sua vita e un corrispondente ruolo cinematografico, senza però mai perdere la vivacità di quei colori.

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Mattia Russo

Laureato in Comunicazione, Marketing e Pubblicità per farla breve, e aspirante giornalista. Curioso per natura, dalla vena impicciona, tendo a leggere qualsiasi cosa, con un'inclinazione al fantasy. Non sono uno che ama i silenzi e parlo troppo. Pace.

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Un commento

  1. Dir che è poliedrico è poco, tralasciando i “must” della sua carriera io ultimamente più che nel Settimo figlio (per quanto anche li chapeau) l’ho apprezzato moltissimo in The Giver secondo me, avendo letto il libro li era calzato a pennello nel personaggio del donatore

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