Intrattenimento

L’incontro con Neil Gaiman: perso in una storia.

Warning: almeno una frase conterrà la formula noi esseri umani, siate avvertiti.

Qualcuno dal Pulpito suona il gong d’inizio.

Va bene, poche formule di rito questa volta. Andiamo al sodo.

Le mie passioni principali sono – più o meno stabilmente - la musica, il gioco di ruolo e la letteratura. Almeno le ultime due riesco a sintetizzarle in una sola forma: le storie.

Anche la musica è una narrazione, in fondo. Meno esplicita, ma noi esseri umani tendiamo a trovare strutture narrative ovunque. Come se la prima volta in cui il riff parte fosse il prologo, in cui parte il tema della nostra storia-canzone, e finisse con un epilogo, un’ultima ripetizione. Spesso un crescendo di intensità, esattamente come un accumulo di vicende e di tensione fino al climax, l’ultima botta, l’ultima risoluzione. E a volte la struttura è più difficile.

Ma siamo affamati di storie. Per troppi motivi. Perché sintetizzano e semplificano la realtà: trovano una struttura, una serie di chiari causa-effetto che spesso il mondo reale non ci danno. Perché immaginano e creano. Perché, come le idee, s'impiantano, creano e generano figli simili ma diversi e perché spesso al gioco di paragonare un figlio con l’altro, metterli a confronto, ci si prende gusto. Oppure (ma non deve escludere tutto il resto) c’è l’ipotesi di Neil Gaiman.

Ogni occasione è buona per tirarmela col fatto che ho visto Neil Himself dal vivo, in fondo, ma questa volta c’è pure un perché. Stava parlando di Fortunately the Milk, la sua ultima delizia (ne sentirete presto parlare su queste stesse pagine di pixel) e ha tirato fuori il suo rapporto con le storie in sé. E di quella spiegazione mi sono innamorato.

Dice Neil che le storie ci sono così utili perché ci permettono di fuggire e poi di tornare a casa con qualcosa in più. Di entrare in uno spazio in cui può capitare qualcosa di intenso – morte, malizia, cattiveria, ma anche i sentimenti più forti e totali, quelli che ti rendono vulnerabile, o confrontarti con quei piccoli difetti che conosci benissimo ma non meriteresti di avere. E in cui quel qualcosa di intenso lo potrai affrontare. Insomma, le storie creano un ambiente sicuro in cui i demoni, i mostri, il buio della vita possono apparire e venire affrontati finalmente. In cui puoi identificarti in una persona, non importa quanto lontana e diversa, che condivide un pezzo di te: un dubbio, un modo di vivere, la risposta diversa a una domanda che nella tua vita ti sei già posto. Spesso non è come la vita: spesso quello che accade andrà a colpire proprio quelle domande, proprio quei problemi. Non è detto, ma spesso quell'ordine ci sarà. E in fondo è il modo con cui gioco di ruolo con più passione. Non l’unico, il mio personalmente più forte e più fruttuoso: non voglio avere un’altra vita, voglio vivere una storia in cui portare qualcosa di mio – e uscire con un tesoro, con qualcosa in più. Certo, è una cosa mia, ma lo sapete che il Pulpito è un – altro – pezzo di me.

E poi, riprendendo Neil e una delle sue citazioni preferite: come dice e va sempre citato Chesterton (un altro grande sottovalutato di cui avremmo più bisogno), le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi. Ma la questione è che troppe volte abbiamo letto questa frase come qualcosa che parla ai bambini. O a chi legge di fantasia. O alla sola letteratura di immaginazione. No, credo che voglia invece dire altro più in profondo: che ogni storia ha al suo interno un drago, un pezzo di realtà, da riconoscere e affrontare.

Per questo odio l’idea di evasione comunemente intesa: perché sembra che la fantasia debba essere per forza qualcosa fuori. Qualcosa in cui scappare per sempre perché in fondo nella realtà non è rimasto nulla d'interessante. Solo noia, routine, abitudine. E non credo nel lettore come una persona frustrata, rassegnata a rifugiarsi dalla realtà. Non credo che il Nerd si meriti di esserlo. Non credo in questa evasione: credo che serva fuggire e tornare. Credo in Alice che afferra la regina rossa, la scuote in aria come un animale da rimproverare e (spoiler!) si sveglia che è davvero la gatta Dinah fra le mani.

Credo nel fatto che la realtà sia l’ambientazione più multiforme, la storia più incasinata e bella che abbiamo. Credo che ascoltare un narratore, su voce o su carta, sia un dialogo con una persona vera prima di tutto; un dialogo in cui chi ascolta ha peso, non solo chi parla. Credo che il bellissimo, multiforme mondo dell’immaginazione, della letteratura, della musica,di tutte le storie che… sia un viaggio con un ritorno. Sia ritorno nel senso di posto, sia ritorno nel senso di qualcosa che ti torna fra le mani, che non ti abbandona: sempre se quella narrazione aveva un senso, se è stata significativa.

Credo che le storie servano per fuggire e per rientrare; ci voleva il mio scrittore vivente preferito per formalizzare questo. Se non ci fosse Neil, lo bisognerebbe inventare.

Un altro colpo di gong, e il Pulpito si svuota.

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Commenti

  1. Mi permetto anche, da pseudoimbrattatricedifileword, di ribaltare il discorso: senza la storia più incasinata e bella che abbiamo non esisterebbero le altre, cioè il contenuto della valigia dello scrittore è determinato dalla realtà e dalle possibilità della realtà e quindi…mi salta alla mente la parola “simbiosi”

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