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Videogames: il capro espiatorio dei benpensanti

Lo scorso 4 novembre, il Corriere della Sera ha riportato, sulle pagine del proprio sito, la storia del sedicenne William Cornick, colpevole di aver barbaramente ucciso la sua insegnante Anne Maguire, 61 anni. Il ragazzo è stato condannato all’ergastolo, e dovrà scontare un minimo di vent’anni nel carcere di Leeds. Una storia di “ordinaria follia” che ci porta, ovviamente, a simpatizzare con la vittima, brutalmente massacrata nei corridoi del Corpus Christi Catholic College di Leeds. A prescindere dalla devastante assurdità del gesto, una cosa mi ha colpito come un pugno al lobo frontale: il particolare accento posto dal giornalista su come il ragazzo fosse “un fissato” di videogiochi violenti. Un elemento che sembra parificato per rilevanza alla perizia psichiatrica, che dipinge un soggetto disturbato con forti “tendenze psicopatiche”. Ora abbandoniamo per un attimo la sostanziale asetticità di quello che, teoricamente, dovrebbe essere l’approccio giornalistico e indugiamo, brevemente, in una riflessione contestuale. Ma possibile che, in un mondo in cui la violenza è un elemento onnipresente e semi-caratterizzante il palinsesto mediatico, cui vanno aggiunti decine di migliaia di possibili elementi di “disturbo evolutivo” a carattere più o meno traumatico, la stampa “ufficiale” senta ancora la necessità di additare il media videoludico come il più probabile fattore di devianza psichiatrica?
A me, sinceramente, sembra una follia.
Non solo, mi sembra – e questo è ancora peggio – un maledetto specchietto per le allodole, utile a deviare la pubblica attenzione su un elemento che rappresenta solo una piccolissima parte di un contesto di disagio ben più ampio. A prescindere dal caso singolo, e dalla difficile valutazione delle dinamiche di devianza tipiche della psicopatia, io credo sia -oggettivamente- difficile ritenere che il videogioco sia un elemento fondante la formazione, o “deformazione”, della psicologia dei gamers in erba. Guardate me, per esempio. Dopo un'infanzia passata a soffiare sulle cartucce Nintendo (con effetti decisamente positivi sulla mia capacità polmonare), tra platform e jrpg pagati in lingotti d'oro nell'unico negozio nel raggio di anni luce, il punto di svolta – poligonale – coincise nel mio caso con l'inizio di quella fase critica che i consulenti scolastici chiamano preadolescenza. L'anno era il 1996 e sulla scrivania di mio padre sedeva una scatola metallica che io chiamavo, genericamente, Pentium, anzi “il Pentium”, per essere precisi. 
Neanche fosse un Autobot in attesa di un colpo di Allspark. Avevo undici anni e non avevo idea di cosa succedesse a più di quattro chilometri da casa mia. Non vi mentirò, la cosa mi stava benissimo. Poi, nel giugno di quell'anno, uscì Quake e….niente cambiò. Voglio dire, era un gioco incredibilmente violento e graficamente realistico (considerate i tempi), ma la mia – seppur acerba – formazione critica faceva sì che gli eventi a schermo rimassero totalmente isolati dalla realtà fattuale. Lo ammetto, non avrei dovuto giocarci (non avrebbero dovuto comprarmelo, per l'esattezza). Ero troppo piccolo e il gioco id Software era chiaramente destinato ad un pubblico di soli adulti. Mi ha cambiato, deviato, contorto, rovinato, reso un violento sociopatico? Diamine, non credo. Anzi mi dicono che sono una personcina discretamente disponibile. Che dire? Che la cosa sia estremamente “case sensitive” e che io abbia avuto una botta del proverbiale? Possibile. Chiusa la parentesi “diario di un giovane Nerd”, che non rappresenta, a nessun livello, un metro di giudizio generale – figuriamoci – , vediamo un po' di approcciare l'argomento “violenza e videogiochi” da un punto di vista più scientifico.
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Nel 1982, agli albori del gaming come fenomeno di massa, il professor Joseph R. Dominick dell'Università della Georgia scrisse un articolo scientifico nel quale dichiarava che “i videogiocatori non sono necessariamente più aggressivi, sebbene i ragazzi che hanno passato molto tempo a giocare nelle sale giochi mostrino livelli inferiori di autostima”. Un'affermazione assolutamente ragionevole, specialmente considerando il periodo. Il videogioco era un media d'intrattenimento relativamente nuovo, e la sua diffusione era ancora piuttosto ridotta. Di rado il videogioco riusciva a diventare una passione condivisa, largamente accettabile dal punto di vista sociale. Senza considerare che il tempo dedicato ai videogiochi era spesso sottratto per intero all'interazione interpersonale, in una meccanica che finiva col minare la formazione di un io sociale forte e definito. Facciamo ora un salto al 20 aprile 1999, data di quello che è stato -senza dubbio – uno degli eventi più socialmente traumatici nella storia degli Stati Uniti, paragonabile, per l'impatto sulla “mens” collettiva, al terribile attentato dell'undici settembre 2001. Parliamo di quello che è passato alla storia come “il massacro della Columbine High School”. Quella mattina Eric Harris e Dylan Klebold si introdussero armati nel liceo, e uccisero 12 studenti e un insegnante. Al tempo i media nazionali e internazionali si lanciarono in filippiche infinite sull'impatto di film e videogiochi violenti sulla gioventù statunitense, glissando – fin troppo spesso- sulle colpe di una società che promuoveva\promuove la sopraffazione come mezzo di auto-affermazione, nella quale procurarsi un'arma era, ed è ancora, decisamente troppo facile. Nel 2002 emerse addirittura – in sordina – un rapporto della CIA che spiegava come, in un gruppo di 41 soggetti coinvolti in sparatorie “scolastiche”, solo il 12% provasse qualche forma di attrazione per i videogiochi violenti. Una conclusione statistica che non ammetteva nessun rapporto di causalità diretta tra videogiochi violenti e violenza fattuale. Negli ultimi 15 anni sono stati centinaia gli studi – più o meno- scientifici promossi da parti sociali, politiche e accademiche, tesi a dimostrare e quantificare la correlazione tra videogiochi e violenza. L'unico, vero, trait d'union di questa incredibile matassa di teorie è l'assoluta non riproducibilità dei risultati. 
Cosa vuol dire questo? 
Vuol dire che, secondo la definizione condivisa di “metodo scientifico”, nessuno di questi studi è stato in grado di produrre risultati di valore assoluto.   
A tal proposito James Ivory, docente al Virginia Tech, ha dichiarato: “ sebbene tutti gli studi sulla correlazione viodeogiochi-violenza si siano rivelati inconcludenti, appare evidente come molte  parti politiche abbiano, nel tempo, esercitato una consistente pressione sui ricercatori al fine di produrre specifici risultati. Al momento è assolutamente sbagliato ritenere il media videoludico una minaccia per la salute pubblica”.
Nel 2010, Henry Jenkins, ex docente di comunicazione al MIT di Boston, ha scritto uno studio che, almeno secondo me, rappresenta la migliore approssimazione di verità scientifica in questo specifico ambito: "…la gran parte dei giovani sono videogiocatori. Giocano il 90% dei ragazzi e il 40% delle ragazze al di sotto dei 30 anni. Stando ai dati federali, la stragrande maggioranza di questi ragazzi NON ha mai commesso atti antisociali. Secondo un rapporto pubblicato nel 2001 da Surgeon General, il fattore di rischio più forte, in questo senso, è rappresentato dalla stabilità e dalla qualità della vita famigliare. Il panico morale generato dall'argomento 'videogiochi violenti' è doppiamente dannoso. Ha condotto le autorità a guardare con sospetto e ostilità molti giovani che già si sentono emarginati dal sistema sociale, e ha impedito che queste energie fossero utilizzate per affrontare ed eliminare le vere cause della violenza giovanile”. 
Bravo.
A me sembra che tutto questo astio sociale, tutta questa prontezza nel puntare il dito contro il media videoludico come “rovinafigli” per eccellenza, rappresenti l'ultimo capitolo di una storia vecchia come il mondo.  L'ennesima olimpiade dello “scaricabarile”, solo per non riconoscere le colpe che si nascondono tra le pareti di una casa “per bene”, tra le fessure di una società di benpensanti inamidati. Solo per non guardarsi dentro, ed essere costretti a riconoscere che – magari – siamo tutti ingranaggi in una macchina sociale spesso straniante e intrinsecamente violenta. Forse se i genitori di William Cormick gli avessero dedicato più attenzione, Anne Maguire sarebbe ancora viva. Non lo so, la mia conclusione è tanto arbitraria quanto quella dei censori del media videoludico. 
Io credo che la vita sia un intrigato sistema di fenomeni, complesso e parzialmente insondabile. 
Ritengo sia assolutamente folle ritenere che una singola, millesimale parte della vita possa essere incolpata, in esclusiva, per eventi tanto drammatici. Ma d'altronde a me le cose facili non piacciono, io sono un videogiocatore.
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