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I sistemi informatici al CERN, e nelle nostre vite

Non siete in vena di letture? Potete ascoltare l'intervista sotto forma di podcast seguendo questo link. Buon ascolto!

ON:Siamo qui con Federico Calzolari, benvenuto sulle pagine di Orgoglio Nerd per un’altra intervista in collaborazione con Campus Party. Tu, infatti, durante l’evento terrai un talk. Ma prima di arrivare a ciò, vorrei parlare un po’ di chi sei e cosa fai nella vita. 
Una cosa che mi ha molto incuriosita è che sei un fisico con un dottorato in ingegneria informatica. Posso chiederti come mai?

FC: La passione per l’informatica è nata negli ultimi due anni della facoltà di fisica quando, durante i laboratori sperimentali abbiamo iniziato a utilizzare computer per il trattamento dati. Da lì la mia passione che è poi diventata un lavoro: prima come programmatore e analista software, poi come system engineer, ovvero chi gestisce sistemi complessi come reti o sistemi per il calcolo scientifico. 
ON:Hai fatto un sacco di cose, molto diversificate. Innanzitutto sei parte dell’esperimento CMS del CERN di Ginevra, cosa fai esattamente all’interno di questo progetto?

FC: Al CERN mi occupo di strumenti per calcolo distribuito, ovvero sistemi informatici per gestire la mole di dati raccolti dai rilevatori sull’acceleratore di particelle. Si parla di circa 100 petabyte all’anno, circa 100.000 volte la memoria di un buon laptop. Per dare un’idea il database di Facebook ha una dimensione di 300 petabyte. Noi raccogliamo questa mole di informazioni per decine di anni in modo continuativo.
ON: E rimangono tutti questi dati?

FC: Rimangono tutti, ed è grazie ad essi che nel 2012 è stato rilevato il Bosone di Higgs, quella particella che era prevista dal Modello Standard ma ancora mancava all’appello. Nel 2013 la scoperta ha portato al premio Nobel per Higgs e Englert che la avevano prevista negli anni ’60. 
ON: È difficile immaginare come possa essere fare parte di un progetto che ha scoperto una cosa del genere. Come è stato il momento della rivelazione?
FC: Sicuramente emozionante. Sono stato fortunato ad entrare in quell’esperimento circa 10 anni prima e assistere a tutte le prime fasi di analisi, raccolta dati e individuazione dell’oggetto della ricerca. Non è più come secoli fa, quando gli esperimenti nascevano e si concludevano nell’arco di settimane, o magari vent’anni fa nell’arco di due o tre anni. Oggi un esperimento scientifico richiede anche cinquant’anni dal momento in cui viene pensato a un tavolino di un bar a quando ottiene dei risultati. Questi tempi sono spesso oltre la carriera scientifica di un individuo. Magari si entra in un esperimento già iniziato e si va in pensione prima che esso ottenga dei risultati, sempre che li ottenga. La scienza è fatta anche e soprattutto di fallimenti, spesso più importanti delle cose che funzionano, perché indicano quali strade battere e quali no. 
ON: Tanti di questi dati sono quindi strade da non battere?
FC: Considera che dei dati acquisiti dal rilevatore solo uno su un milione viene salvato, gli altri vengono buttati via perché non rilevanti per l’analisi in corso. I dati da scartare vengono selezionati da schede elettroniche ad altissima velocità, i computer non riuscirebbero a star dietro a quel rate di dati. Si parla di exabyte al secondo, non esistono sistemi di storage in grado di salvarli. Di quelli che restano, i suddetti 100 petabyte all’anno, si opera un’analisi, e alla fine circa uno su un miliardo contiene qualcosa di utile alla nostra ricerca. È un ago in un pagliaio.

ON: Questo lo fa un unico computer al CERN?

FC: No, no, il sistema di calcolo distribuito è veramente distribuito, sui 5 continenti, in circa 300 data center, su un milione di processori, che lavorano in maniera coordinata e sincronizzata. I risultati vengono mandati ad una unità di elaborazione centrale che li archivia. È un sistema di grid computing, pervasivo e accessibile da tutti. Questo sistema deve infatti essere disponibile a chiunque: scienziati e gente comune che hanno bisogno di potenza di calcolo.
ON: Quindi non è accessibile solo dal CERN?

FC: Certo che no, è stata utilizzata, quando non necessaria al CERN, da comunità scientifiche delle più disparate: biologi, vulcanologi, fisici, economisti, linguisti computazionali. Sono più di 100 le virtual organizations che hanno usufruito della potenza di calcolo messa a disposizione da tale sistema.
ON: Una domanda che mi viene spontanea nel sentire come funziona questa analisi dati: questo materiale è molto prezioso, con questa diffusione capillare non c’è il rischio che i dati siano manomessi o rubati?

FC: Se qualcuno ce li ruba e scopre nuove particelle ci fa soltanto un piacere. Sono realmente di pubblico dominio, l’unico rischio è la compromissione, il furto ben venga. Magari qualcuno con idee diverse riesce a trovare, sugli stessi dati, qualcosa di differente, o migliore di quello che hai trovato tu.
ON: Non è sempre ovvio al grande pubblico che la scienza sia così tanto condivisione, c’è un po’ l’impressione che ogni laboratorio sia un mondo chiuso.

FC: Al contrario, il mondo del CERN è totalmente open source, dal codice per l’analisi ai dati stessi. Chiunque può riprodurre l’analisi dati a casa sua, non che sia semplice, ma è possibile.

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ON: È cosa anch’essa poco nota come spesso le tecnologie che usiamo tutti i giorni siano state inizialmente sviluppate per la ricerca scientifica. Infatti il tuo talk a Campus Party, il 22 luglio dalle 2 alle 3 del pomeriggio si intitola “Tecnologia e innovazione all’interno del CERN: fisica, supercalcolo e cyber crime, argomenti sono apparentemente scorrellati”. Come sono correlati? E come è correlato ciò che si fa al CERN con ciò che succede nella nostra vita di tutti i giorni?
FC: Abbiamo appena visto come, per scoprire cose nuove, serva potenza di calcolo. Da qui l’apporto che l’informatica ha dato alle scoperte scientifiche degli ultimi anni. In realtà esiste anche il viceversa, cioè ricadute nella nostra vita quotidiana di qualcosa che nasce al CERN magari per altri motivi. Ad esempio nel 1989 un allora sconosciuto Tim Berners-Lee, collaboratore informatico del CERN, per pubblicare un suo lavoro in maniera innovativa, non esistendo il web, lo inventa. Il lavoro non penso sia mai stato pubblicato, ma lui ora è il presidente del World Wide Web Consortium, il board che gestisce, a livello di protocolli, il web. Ed è ovvio come il web abbia cambiato le abitudini di vita di tutti noi. 
ON: Chiaro, quindi appunto nel tuo talk di cosa ci parlerai?
FC: Di uno degli infiniti possibili impieghi del web, uno molto particolare ma, purtroppo, pervasivo e trasversale: il cyber crime. Studiato e analizzato non tanto dal punto di vista tecnologico, perché qualsiasi cosa io possa raccontare oggi domani sarà già vecchia e probabilmente sbagliata, ma dal punto di vista delle metodologie. La più famosa di queste è probabilmente il social engineering: lo studio del comportamento e delle abitudini di una persona al fine di carpirne informazioni utili. Quali? Numeri di carte di credito e credenziali di accesso a sistemi di home banking. Attaccare l’anello più debole nella catena del trattamento dell’informazione, che è l’uomo, invece di tentare di violare sistemi di informazione complessi e a volte inviolabili.
ON: Insomma, tutto quell’insieme di pericoli e buone norme come “non mettere nella password il tuo nome e cognome”, queste cose qua?

FC: Esattamente. A volte mi chiedo da dove derivi il mio interesse per il cyber crime. Forse da un fatto che è successo nel 2007, quando fui riconosciuto come autore del primo exploit sugli algoritmi di ranking di Google, ovvero ho piazzato il mio  nome e cognome nella lista delle parole più ricercate su Google, che viene pubblicata con una certa cadenza. 
ON: Cioè, sei riuscito a farti cercare tutte quelle volte, o lo hai inserito violando i loro sistemi? 
FC: In realtà non ho violato nulla, ho sfruttato gli algoritmi stessi di Google. Erano blindati, ma ho iniziato ad ipotizzare come potessero funzionare, e ho trovato un sistema per fare sì che alcune particolari ricerche avessero un peso enormemente superiore alle altre. Quindi ne sono bastate poche centinaia per far schizzare il mio nome ben sopra quello della star del momento. Non so se vale come scusa, ma avevo un piede rotto ed ero ospite a casa di mia madre in una giornata di pioggia. Lì mi venne in mente di scrivere quelle poche ma buone righe di codice. Le persi poi completamente e dopo un mese mi avvisò un amico che sentì la notizia alla radio. Quel giorno fu abbastanza impressionante, e cambiò sicuramente parte della mia vita.
ON: Questo argomento, e questa storia in particolare, è molto interessante, non so se hai visto la serie TV Mr. Robot, che parla sostanzialmente di questo, di quanto certi sistemi siano vulnerabili. Quanto è vero e quanto assolutamente improbabile?

FC: È tutto abbastanza vero. Motivazioni personali a parte, il mio interesse per il cyber crime deriva anche dal fatto che in quel mondo si possono trovare dei livelli di creatività impressionanti e affascinanti, distaccandosi dalle considerazioni etiche o morali, naturalmente.
ON:Fra l’altro la creatività è una virtù che raramente viene riconosciuta agli scienziati o agli ingegneri. La mente razionale è tutto tranne creativa nell’immaginario collettivo.

FC: E l’ingegnere, ancor più del fisico, impersona il prototipo della non creatività. Mi piace pensare di aver preso il meglio da entrambe le categorie, mia moglie probabilmente direbbe il contrario. Son punti di vista.
ON: Allora ci vediamo a Campus Party, non vediamo l’ora di seguire il tuo incontro, grazie della chiacchierata.
FC: Grazie a voi, a Campus Party!
L'intervista vi è piaciuta e volete approfondirla? Potete ascoltarne il podcast integrale seguendo questo link.

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Giada Rossi

Laureata in Astronomia, aspirante Astrofisica. Curiosa di natura. Scrivo soprattutto di scienza, ma preferisco parlare di cani buffi.

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