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Il caso Kevin Hart – Le Voci dell'Idra

Kevin Hart è al centro dell’attenzione mediatica da quando, all’inizio di dicembre, l’Academy lo ha scelto come presentatore degli Oscar, e nemmeno tre giorni dopo il comico ha rinunciato all’incarico a causa della bufera scatenata da alcuni suoi tweet di una decina di anni fa. In questi giorni di festa stiamo parlando spesso di cinema, con le molte nuove uscite di questo periodo, e di Oscar in particolare, così abbiamo deciso di dedicare un articolo per approfondire la vicenda di Hart dando la nostra opinione. Parlandone in redazione sono emerse tante voci diverse, e anziché condensarle o fare “la media” delle nostre varie opinioni, abbiamo deciso di riservare un angolino alle idee di tre dei nostri redattori, Mattia Russo, Mattia Chiappani e Gabriele Bianchi. Speriamo che questo esperimento di “editoriale multiplo”, che abbiamo battezzato Le Voci dell’Idra, vi piaccia e stimoli un sano confronto di idee. Fateci sapere come la pensate!

La vicenda

kevin hart, oscar 2019

Partiamo ricostruendo la vicenda. Il 5 dicembre l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha scelto Kevin Hart come presentatore della 91° edizione degli Oscar, che si svolgeranno il 24 febbraio prossimo. Il comico 39enne, star del recente Jumanji: Welcome to the Jungle, era chiaramente entusiasta della cosa, essendo un riconoscimento importante e il coronamento della sua carriera, un traguardo che inseguiva da sempre.

L’emozione di Hart emerge nitida anche dal suo post su Instagram, “a caldo”, subito dopo l’annuncio.

Tutti i momenti di festa, di vittoria, di idillio, sono destinati a finire, ma dobbiamo ammettere di essere rimasti piuttosto sorpresi dalla velocità con cui questo particolare momento ha avuto termine: meno di due giorni dopo, diversi giornalisti ed attivisti LGBTQ hanno riportato alla luce vecchie routine comiche e vecchi tweet dell’attore che hanno un sapore piuttosto omofobo, nel linguaggio utilizzato o nel modo di trattare certi temi delicati.

Il prosieguo della vicenda è noto, e ve ne abbiamo già parlato nel dettaglio il 7 di dicembre: Hart non ha preso bene questi che ha percepito come attacchi, e ha risposto con un video su Instagram in cui minimizzava, un po’ provocatoriamente forse, la situazione, rivendicando di non ritenersi nella posizione di doversi continuamente giustificare.

A seguito di questo video l’Academy ha contattato Hart per “consigliargli” di fare marcia indietro con delle scuse pubbliche, o sarebbero stati costretti a guardare altrove e rivolgersi a un nuovo conduttore. Kevin Hart ha nuovamente risposto mantenendosi sulle proprie posizioni, rifiutandosi di scusarsi perchè, dice in un nuovo video su Instagram, ha già affrontato la questione in passato, non si sente in dovere di doversi continuamente difendere da questa stessa accusa, ed è ormai un uomo diverso, e quelle battute non rispecchiano più il suo modo di pensare.

Due ore dopo questo video, Kevin Hart si è esibito in una acrobatica piroetta che neanche un artista da circo, affidando a Twitter l’annuncio della sua decisione di fare spontaneamente un passo indietro, rinunciando alla conduzione degli Oscar per non diventare una distrazione ai danni di tutti gli straordinari talenti da celebrare durante la Notte.

Decisione accompagnata dalle accorate scuse alla comunità LGBTQ.

E questa è più o meno la fine di una strana storia raccontata a singhiozzo, fra un tweet e l’altro, un post su Instagram e l’altro. Al momento attuale, chi condurrà gli Oscar rimane un mistero. Pare che l’Academy stia facendo seriamente fatica a trovare un sostituto per Kevin Hart, addirittura contemplando l'”opzione nucleare” di non scritturare nessuno nel ruolo tradizionale di conduttore dell’intera serata, invece alternando varie celebrità fra uno stacco pubblicitario e l’altro.

Questa è la vicenda. Nelle prossime pagine vi offriamo alcune nostre considerazioni, facendovi sentire Le Voci dell’Idra, che per questa volta saranno quelle dei nostri Mattia, Mattia e Gabriele. Quest’idra, paradossalmente, non morde, quindi sentitevi liberi di dire la vostra nei commenti: il senso di questo articolo, speriamo il primo di una lunga serie, è proprio di incentivare il confronto e permettere a chiunque di esprimere la propria opinione!

Il commento di Mattia (Russo): Il diritto di essere idioti

Personalmente sono un idiota. Ho un innata predisposizione ai guai di ogni sorta, ma nonostante ciò, non ho mai pensato alle conseguenze delle mie azioni, divertendomi nei modi più disparati e facendola franca più volte di quanto avrei dovuto. Non sono ancora stato messo alla gogna è questa è una fortuna.

Una volta essere un idiota era un tuo diritto personale, unico dell’individuo, riservato solo a te stesso. Con l’avvento di Internet, e più precisamente dei social network, questo diritto è d’improvviso diventato universale. Strappato dalla propria casa e gettato nella piazza pubblica della rete, dove la massa è sempre pronta alla colpevolizzazione mediatica, dove vi è accanimento punitivo oltre misura, dimenticando la differenza tra giustizia e punizione. Una passerella di vergogna che farebbe lezione al Credo dei Sette di Westeros. Perché la verità è che ti è permesso essere un idiota a patto che non ci siano prove da usare contro di te in futuro. Verba volant, scripta manent.

Attenzione: non voglio giustificare il comportamento un idiota. Capire che essere un personaggio pubblico ti espone a molti rischi è compito tuo. Sapere che ti vengono addossate più responsabilità del normale cittadino è compito tuo. Saper gestire una crisi, anche inaspettata, è compito tuo. Nessuno è perfetto, ma se ti trovi sotto i riflettori le tue imperfezioni si noteranno di più. La candela che vale il gioco in questo caso. I social media sono la nuova democrazia, dando parola ai colti e agli imbecilli, ma mentre i primi pensano prima di scrivere, i secondi scrivono e poi, forse, pensano. Il problema è che il loro messaggio arriva sullo stesso schermo di chi legge, perdendo la fondamentale interazione faccia a faccia, necessaria a contestualizzare la persona. Non li riconosci gli uni dagli altri e la tua idea finisce per perdersi nel fiume della massa. Scoperchiare le ante dell’armadio alla ricerca del cosiddetto scheletro è una tattica antica di secoli. Conosci il nemico e te stesso, la vittoria è sicura, lessi tempo fa nell’Arte della Guerra.

La caccia al tweet è diventato uno sport a cui partecipano migliaia di persone e vengono incoronati tutti campioni. Non importa se il messaggio sia vecchio di anni, se l’idiota, in questo caso, sia cambiato o abbia già fatto ammenda. Si prende il tweet e si rimette in piedi il tribunale. Un processo basato su una prova, la più importante, senza considerare tutti gli altri elementi del caso. Criticanti da tutto il mondo uniti dal desiderio d’approvazione della piazza, composta da profili sconosciuti, con la falsa speranza di perpetrare una buona azione. Non c’è niente di più patetico e triste per me nella società online d’oggi. Sperare di lavare le proprie colpe scovandone di maggiori negli altri non renderà il mondo un posto migliore. Nessuno è esente dallo sbaglio. Ai più fortunati non verrà rinfacciato. Il vero pericolo è però questa tendenza a rovistare nel cestino passato delle personalità pubbliche che potrebbe avviare una generale escalation destabilizzante, obbligando i più a perdere quella libertà così tanto osannata dalla tecnologia.

Perché un conto è obbligare a pensare prima di postare e un altro è obbligare a temere cosa postare. La vera vittoria degli sbagli è imparare da essi, ma se ad un società togli questa possibilità, o peggio la condanni, allora non rimane che la maschera di un finto perfezionismo. Sbagliare ha permesso all’umanità di evolversi. Le più grandi scoperte vengono proprio da uno sbaglio. E condannare uno sbaglio per cui si è già scusati soltanto perché la luce illumina più forte crea un precedente. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. La verità è che i social network hanno azzerato la nostra zona di privacy e ormai anche essere idioti non è più un diritto personale. Meno male che sono un idiota senza un account Twitter.

Il commento di Mattia (Chiappani): Accelerazione generazionale

Aprite il cassetto della scrivania, spostate i fogli di brutta e le penne scariche messe lì perché “Non si sa mai, magari ripartono”. Ecco, lì dovrebbero esserci degli occhiali speciali, gli occhiali ‘da mezzo pieno’. Avete presente?
Quelli che indossiamo quando la persona per cui proviamo qualcosa ha accettato il nostro invito a uscire o quando abbiamo preso un bel voto in quell’esame per cui abbiamo studiato giorno e notte o semplicemente quelli che portiamo quando rientriamo da una serata tra amici, di quelle veramente belle. Insomma, le lenti che ci fanno vedere il lato positivo del mondo. Trovati? Bene, indossiamoli e guardiamoci intorno.
Non so voi, ma quando li metto, vedo una società che sta crescendo, che sta migliorando, che sta imparando sempre di più, giorno dopo giorno, a rispettare gli altri. La sensazione che ho è che la direzione in cui stiamo andando sia verso una maggiore accettazione, in ogni campo.

Certo, neanche quando indosso gli occhiali posso negare che ogni tanto ci siano delle brutte sterzate in questo senso. Quando però guardo la situazione nel suo complesso mi sembra che siano solamente delle oscillazioni, più o meno ampie, di un trend che è decisamente in crescita. E noto anche un’altra cosa: questa crescita è esponenziale.
Non solo mi sembra che la nostra società stia imparando cosa significhi rispettare davvero gli individui che ne fanno parte, ma mi sembra anche che questo processo stia andando a velocità impressionanti e che continui ad accelerare. La mentalità di oggi appare molto diversa da quella di soli cinque anni fa, tanto quanto quest’ultima è lontana da quella degli anni ’90.
Da cosa è causato tutto questo? È difficile dare una risposta precisa. Forse è legato alla maggiore possibilità di portare alla luce determinate voci, fornita dai social network. Forse è semplicemente una spinta data da determinati eventi come lo scandalo legato alla figura di Harvey Weinstein o proteste come gli #OscarsSoWhite del 2015 e 2016. Forse il motivo è ancora più profondo, ma non è nello spazio di poche righe che possiamo sviscerare questo aspetto.

Resta il fatto che questa evoluzione è presente e che ha delle conseguenze importanti. Una di queste è che qualsiasi dichiarazione, qualsiasi scelta, invecchia male e molto rapidamente. Questo, unito alla tracciabilità quasi eterna data dalla rete (che non dimentica mai davvero) forma un cocktail esplosivo.
La velocità di questi passaggi supera quella del “normale” ricambio generazionale e così ci ritroviamo con protagonisti dello show business che hanno vissuto in due epoche con una mentalità profondamente diversa. Le affermazioni che in un’epoca non causavano grande scandalo possono rivelarsi inaccettabili in un’altra.
Questo significa che il tempo dovrebbe cancellare tutte le parole? No, decisamente no. Semplicemente però dovremmo tutti imparare a gestire meglio questo processo che sta rivoluzionando la nostra società. E soprattutto, paradossalmente, a essere più tolleranti con chi dichiara di aver sbagliato, di essere cambiato insieme alla società e di non riconoscersi più in determinati atteggiamenti.
Il pericolo altrimenti è di radicalizzare ancora di più chi si oppone a questo tipo di cambiamenti nella mentalità comune. Se non distinguiamo tra chi ha avuto determinati comportamenti in passato e chi li rivendica tuttora, rischiamo di porre un serio ostacolo sulla strada verso il definitivo rispetto reciproco tra le persone.
È facile riconoscere gli errori, mille volte più difficile perdonare chi è disposto a riconoscerli. Impariamo a farlo.

Il commento di Gabriele: Lo Zen e l’arte di chiedere scusa

La vicenda di Kevin Hart porta alla mente un evento recente, piuttosto simile: un’altra celebrità ha visto alcuni suoi tweet controversi emergere all’attenzione del pubblico, e per l’ondata di oltraggio, o più precisamente, per il timore di un’azienda della possibile ondata di oltraggio, è stato punito dove più conta, perdendo un contratto di lavoro da sogno e facendo notevoli passi indietro nella propria carriera. Sto parlando naturalmente del licenziamento di James Gunn da parte di Disney dopo che è tornata alla luce una collezione di tweet offensivi e caciaroni che scherzano su temi importanti risultando, per dirla con un eufemismo, di pessimo gusto.
Fra le due vicende c’è una differenza che trovo macroscopica. Della vicenda di Gunn ha parlato il nostro Mattia, facendo emergere proprio il particolare a cui mi riferisco: i tweet del regista sono stati recuperati e l’intera polemica è esplosa a causa dell’intervento di network conservatori con l’esplicito intento di danneggiare Gunn per le sue posizioni politiche sgradite.
Nel caso di Kevin Hart, invece, a scovare e pubblicizzare i suoi tweet omofobi (e su questo torniamo) sono stati giornalisti e attivisti della comunità LGBTQ, ovvero i bersagli, per così dire, delle battute dell’attore.
Sono anch’io molto infastidito da questa attuale tendenza a rimestare nel torbido alla ricerca di ombre o punti deboli nel passato dei personaggi pubblici, ma mi sembra molto chiaro che le due situazioni siano differenti: nel caso di Gunn si è trattato di un’operazione platealmente punitiva, con l’obbiettivo di attaccare un regista non grato con un pretesto qualunque; nel caso di Hart l’indignazione, esagerata o meno, appropriata o meno, mi appare più genuina e legittima.

Parliamone, dunque. La reazione è stata esagerata? I tweet sono davvero così omofobi? Certamente abbiamo visto di peggio: molte persone ancora nel 2018 esprimono pareri e utilizzano un linguaggio platealmente omofobo, in maniera talvolta esasperata e persino orgogliosa. Non mi sembra affatto il caso di Kevin Hart, tuttavia è innegabile che quelle battute siano infelici: sebbene non abbiano il livello di acredine di certe dichiarazioni di politici e uomini pubblici, fanno comunque la loro parte nel perpetrare quegli stereotipi che si sta così faticosamente cercando di eliminare dalla nostra coscienza collettiva.
C’è un ulteriore passaggio, a questo punto: Kevn Hart è cambiato, non approva più quelle battute, le ha tolte dai propri spettacoli, è in un altro punto della sua evoluzione come essere umano. Disclaimer: non ho intenzione di domandarmi se sia vero, oppure se sia soltanto un cambiamento di facciata. Stiamo parlando di un personaggio pubblico, quindi l’unico aspetto che ci interessa è proprio quello della sua facciata, paradossalmente.

Kevin Hart è cambiato, dicevamo, e comprensibilmente ritiene di non dover più delle scuse a nessuno. Ha già affrontato il discorso, spiega, e si rifiuta di sottostare a questa sorta di ricatto, altrimenti si dovrebbe scusare ogni volta che qualcuno tira in ballo le sue vecchie routine comiche. Comprendo bene questo discorso e in parte lo condivido: le persone cambiano, dobbiamo collettivamente accettare e convivere con gli errori passati dei nostri “eroi”. Trovo poi che questo gioco di “caccia alla controversia” in cui si rimesta nel passato dei vip per metterli di fronte a vecchi scheletri nell’armadio sia un’arma con un terribile doppio taglio. Il messaggio sembrerebbe quasi essere che non importa quanto le tue posizioni evolvano, non importa se ti rendi conto dei tuoi errori: questi rimarranno parte della tua identità pubblica per sempre, e potranno essere sempre fonte di indignazione. Non dico che siamo (ancora) a questi livelli, ma ci stiamo pericolosamente avviando in quella direzione, e non mi sembra né furbo né efficace.

Quindi comprendo Kevin Hart: è stato messo al centro di una situazione che lui trova ingiusta. Però sono anche convinto che abbia reagito a questa situazione in maniera assolutamente pessima.
Il mio discorso va su due binari differenti, che in realtà si sovrappongono: uno è etico, l’altro è tattico. Dal punto di vista etico, trovo che Hart abbia perso una grande occasione per comportarsi in maniera alta. Accettare le critiche, affrontarle di petto, ammettere di aver sbagliato e sfruttare l’occasione per trasformare questa polemica in qualcosa di positivo sarebbe stato grandioso. Abbiamo recentemente avuto un luminoso esempio di “come si fa” grazie al nostro Leo Ortolani, che ha affrontato di petto i propri errori nella rappresentazione delle transessuali in Ratman, e ha prodotto Cinzia, che è il suo pubblicissimo modo di aggiustare le cose. Ortolani avrebbe avuto tutte le ragioni per glissare sulla questione: i suoi errori sono vecchi di anni, ora è cambiato; si tratta di battute comiche, nulla di più; eccetera. E avrebbe funzionato. Ma ha scelto invece di sfruttare il suo personale percorso di crescita per offrire un’importante testimonianza ai suoi lettori, ovvero che è legittimo sbagliare, soprattutto su temi che la società e la cultura moderne stanno fagocitando in modo straordinariamente rapido. L’importante è ciò che si decide di fare quando ci si rende conto di aver sbagliato.

Dal punto di vista tattico, allo stesso modo, Hart ha fatto un passo falso. Quella che avrebbe potuto essere la storia dell’encomiabile sforzo di un attore “riformato” per fare ammenda dei suoi antichi errori è diventata la storia di un attore che perde il lavoro dei suoi sogni perché è troppo arrogante per chiedere scusa. Di nuovo, capisco che Hart abbia già affrontato la questione, ma…non so voi, io non lo sapevo. In uno dei suoi video Hart dice che lo stesso sforzo che è stato fatto per trovare i tweet controversi sarebbe stato sufficiente per trovare le sue risposte. Reazione comprensibile, ma francamente sarebbe molto più furbo da parte sua far sì che le risposte fossero molto più facili da trovare rispetto ai tweet, e sfruttare l’enorme palcoscenico degli Oscar per affrontare la questione sarebbe stato un ottimo modo per mettere a tacere le critiche una volta per tutte, perché a quel punto nessuno potrebbe più rinfacciargli nulla. Aggiungete poi che dopo la sua prima reazione di pancia, in cui rivendicava di non aver nessun motivo di scusarsi, l’attore ha comunque finito per farlo, e capite bene il grande pasticcio che è stato fatto nel gestire l’intera faccenda.

Insomma: chiedere scusa potrà essere fastidioso o ingiusto, ma in un caso del genere trovo che sarebbe stata la scelta migliore, sia perché avrebbe posto la luce dei riflettori su una tematica ancora delicata e importante, facendo del bene a molti, sia perché sarebbe stato uno scacco matto notevole da parte di Hart, che avrebbe alleggerito la sua carriera di questo fardello. Invece l’attore ha deciso di porre l’accento su tutte le circostanze attenuanti o i distinguo, che pure sono assolutamente legittimi, ma non è quello che si vuole sentire come accompagnamento a delle scuse. “Mi dispiace, ma…” non ha mai funzionato. Vorrei citare qui una delle migliori offerte di scuse che mi possano venire in mente, che personalmente uso come traccia da seguire in occasioni simili.

Nelle immortali parole di Ron Swanson: “I am sorry. I have been a horse’s ass. And that is the end of what I have to say”.

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