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Razze, uomini e DNA: se la genetica ci da dei razzisti

Ciò che comunemente viene definito e riassunto come razza (umana), sta prendendo sempre più peso a livello sociale e politico. Che siano apertamente questioni di conflitti razziali o siano politiche riguardanti il rapporto con altri paesi, la parola razza, in tutte le sue possibili derivazioni semantiche, ci giunge frequentemente alle orecchie. Spesso utilizzata per descrivere gruppi di individui con caratteristiche fisiche simili, tipiche di un luogo di origine comune. Vi siete mai chiesti, però, se questo tipo di classificazione trova un fondamento anche a livello scientifico? Ha effettivamente senso parlare di razze umane?
Scientificamente, la parola razza, è utilizzata per definire le diverse varietà anatomiche, e quindi genetiche, che ricorrono in determinati sottogruppi di una specie. Pensate ai cani: diverse razze, ciascuna con specifiche peculiarità. Un levriero è magro, slanciato, col muso allungato ed i muscoli delle gambe ben sviluppati. Un pitbull d’altra parte è un cane muscoloso, tozzo e dal muso largo. Sono entrambi cani ed hanno entrambi gli stessi geni per lo stesso tipo di caratteristiche fisiche, che ci permettono di identificarli come cani, diversificandoli dagli altri animali. Differiscono però tra loro per le possibili forme che alcuni di questi geni possono assumere, forme chiamate alleli. Tutti i cani, ad esempio, hanno una sequenza di DNA, un gene, che codifica per la forma del muso; questo può presentarsi nella forma dell’allele A che codifica un muso corto, o in quella dell’allele B, per il muso un po’ più lungo ed affusolato. La presenza dell’allele B, unita a quella degli alleli per il corpo più magro e le zampe da corridore, definiscono la razza levriero. Per avere una razza si devono quindi accumulare in un gruppo di individui una serie di differenze genetiche che li rendano facilmente identificabili dagli altri e che ci permetta facilmente di etichettarli e distinguerli. Una specie di codice a barre di DNA in cui ciascuna riga di codice rappresenta una versione di uno stesso gene, che insieme ci permettono di stampare un’etichetta che distingue il levriero, o il pitbull, in un gruppo di cani.
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Lo stesso concetto vale per gli esseri umani?Per poter affermare che all’interno della specie umana esistono delle razze, dobbiamo essere in grado di rilevare una serie di differenze che ci permettano di etichettare un tipo di essere umano come “diverso da un altro”. Prendiamo ad esempio le 3 razze più scientificamente discusse e riconoscibili, definibili come africana, europea ed asiatica. Le differenze tra questi 3 gruppi sono piuttosto evidenti, basti prendere ad esempio il colore della pelle, forma degli occhi o lineamenti del viso. Se ci pensate sono le caratteristiche che per anni abbiamo utilizzato, anche inconsciamente, per classificare gli esseri umani, e sono, storicamente, la causa scatenante l’utilizzo delle parole “razza umana”. C’è differenza però tra le caratteristiche fisiche che percepiamo coi nostri occhi e le reali differenze genetiche che le causano. L’etichetta di razza può essere creata, infatti, solamente se le differenze tra razze sono più significative delle naturali differenze tra gli individui.
Il DNA di un qualsiasi essere vivente è sempre in un qualche modo diverso, a volte molto diverso, da quello dei suoi simili: il DNA di due fratelli ad esempio non sarà mai uguale, proprio in virtù dei diversi alleli (le diverse forme di uno stesso gene) che possono essere ereditare in modo casuale da madre e padre. E’ evidente quindi che, per esistere, la razza europea debba essere molto diversa da quella asiatica ed africana, ma se paragonata al suo interno deve risultare costante negli alleli presenti: meno diversificata. In sostanza, se estraessimo individui da una popolazione europea e da una africana, li mischiassimo tra loro e li analizziamo a livello genetico, dovremmo essere perfettamente in grado di smistarli in una o l’altra razza proprio grazie a quell’etichetta costruita sulle varianti genetiche caratterizzanti. Ma non è così. Semplicemente perché in realtà nella specie umana non esistono razze.
All’interno del nostro DNA, se ci paragoniamo agli altri animali, solo una piccola parte è variabile a livello allelico tra i vari individui dell’intera specie. Di questa piccola parte, se consideriamo i tre gruppi di prima (europea, asiatica ed africana) il più grande accumulo di variazioni (tra l’80 ed il 90%) avviene all’interno di ciascun gruppo e solo il 10-15 % varia tra gruppi. Questo 15% costituisce una “etichetta parziale”, non utile per costruire una vera categoria di razza ma interessante per capire (a grandi linee) la provenienza geografica dei DNA moderni. Tendiamo ad accoppiarci con persone della nostra stessa zona e quindi i tipi di alleli per i vari geni ricorreranno più frequentemente nelle zone di origine, siano queste Europa, Asia o Africa. Senza creare però differenze sufficientemente consistenti per etichettare e separare gli individui.
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In pratica siamo tra le specie con gli individui geneticamente più simili tra loro, rispetto alle molte altre presenti in natura. E questo lo dobbiamo al fatto che siamo una specie giovane. Ci siamo evoluti solo recentemente rispetto agli altri animali, trovando la nostra culla in Africa, dove abbiamo accumulato questi diversi alleli, queste piccole differenze. Una volta pronti, una piccola popolazione ha lasciato la “terra madre”, partendo alla colonizzazione del mondo. La “recente” origine comune, le migrazioni ed il continuo accoppiamento tra i nostri avi, ha creato queste caratteristiche che ricorrono nelle diverse zone geografiche. Senza però differenziarci realmente, senza creare razze o concrete differenze genetiche.
Per quanto la questione dell’esistenza delle varie razze (o etnie) umane sia ancora molto dibattuta, la maggior parte dei ricercatori ribadisce quindi la sostanziale assenza di un fondamento scientifico nell’utilizzo della parola razza per la specie umana, almeno a livello terminologico. Viene quindi da se che tutta la semantica che ne deriva, i vari sinonimi che tendono a raggruppare gli umani sulla base delle loro differenze, perdono di significato “tangibile”, rimanendo soltanto classificazioni nate principalmente da percorsi storici e geografici differenti e dalle diverse culture. Alla luce di ciò, e del mondo sempre più interconnesso che abitiamo, pensate che sia comunque utile l’etichetta data dall’appartenenza ad una razza? Che ne pensate?
Fonti:

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Un commento

  1. Se le distinzioni di razza (seppur fittizie) non fossero usate in modo discriminante credo sarebbero comunque una gradevole distinzione identitaria. Un mondo interconnesso è qualcosa di magnifico, il villaggio globale è un risultato incredibile, ma si porta dietro grossi e difficilmente evitabili bug che detesto. Come il lento ma inesorabile piallamento di folklore, tradizioni, dialetti, gastronomie, etc… in tutto questo l’appartenenza a una “razza” sarebbe un importante appiglio, un legame individuale con una cultura di appartenenza. Suggerisco la lettura (consigliatami dal buon Gabriele Bianchi) de “Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” dell’antropologo Jared Diamond.

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