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The Punisher: un pezzo, due pezzi, un penny e un decino

Che Jon Bernthal fosse perfetto nei panni di Frank Castle si era capito dall’ospitata fatta in Daredevil. Che fosse in grado di reggere un intero blocco di tredici episodi solo con sangue, pugni e pallottole questo era tutto da vedere.
La serie si apre con Frank lì dove lo avevamo lasciato, intento a vendicare la morte della propria famiglia. Quando però la missione sembra apparentemente conclusa, una cospirazione governativa viene a bussare alla sua porta ed è “costretto” a rindossare il teschio.
Questo è l’incipit che apre le porte della prima puntata. Vediamo un Frank Castle che ha eliminato ogni singola persona associata all’omicidio di sua moglie e dei suoi figli, un Frank Castle alla ricerca di vendetta, alla ricerca di qualcosa che ancora non conosce bene. Questo tergiversare di trama è anche il motivo per cui i primi episodi scorrono via piatti senza grandi prove, senza trasporto. Presentano i diversi soldati ma senza una missione chiara.
Dalla quarta puntata però entra in gioco alla colonna sonora The Boss (Bruce Springsteen) e la musica cambia. Ogni soldato riceve i propri ordini e realizza chiaramente chi, per cosa e come combattere la propria battaglia. A partire da quell’esatto momento la missione della serie scorre via liscia senza intoppi e si dimostra un successo.
The Punisher decostruisce tutto quello che ci era stato detto sul personaggio e ne riscrive le origini, le rinarra da un altro punto di vista. Quella che rischiava di essere una mattanza ingiustificata con una trama debole e dei buoni attori a farne le spese, così non è stata. 
È una serie che si sporca di rosso, sorda al rumore delle costole rotte ma dal gusto sinistro del metallo. Ti trascina a fondo nella parte più remota dell’uomo, quella parte animale che è pericolo e al tempo stesso libertà. Ti mostra che ci sono più conseguenze per ogni azione e più strade da intraprendere e ne caldeggia la migliore, che secondo le precedenti serie sarebbe la peggiore. Ed è proprio per questo che vince. 
Vince perché è vera, più umana delle precedenti e più reale. Chiunque di noi, con il dovuto addestramento, potrebbe essere Frank Castle. Chiunque potrebbe abbracciare la sua filosofia e il modus operandi.
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Jon Bernthal, ancora una volta, è perfetto nella parte. Al di là di una semplice muscolatura e del grugno cattivo è quello che non si vede che lo rende l’ideale. Quella bestia sopita e incatenata al suo interno che sembra volerne squarciare le carni ad ogni scena, quel tic all’occhio sinistro che vibra di pura rabbia, quella calma fredda del killer davanti ad un fucile da cecchino.  È il Punitore che ci meritiamo e quello che stavamo aspettando.
I comprimari giocano tutti bene la loro parte, svolgendo il loro compito ma nessuno eccelle, troppo oscurati da un gigantesco Frank Castle.
Ultima nota di merito sono i combattimenti: frenetici, duri e selvaggi. Netflix quando si tratta di sporcarsi le mani, senza ricorrere alle arti marziali, da il meglio di se. Sono pura carneficina per i nostri occhi, colore rosso e interiora per il nostro pranzo. E in un attimo ritorniamo ad essere demoni avidi di puntate come non succedeva dalla seconda stagione di Daredevil. 
Non si ferma a rappresentare una guerra tra due fazioni, non narra la storia di una vendetta ma delinea diversi scenari, diversi campi di battaglia. Li fa scattare nello stesso momento e a tempo debito li fa scontrare nella legge del più forte. 
La vincitrice è proprio la guerra di Frank. 
Una guerra di scoperta, di crescita, di punizione e infine di accettazione. Accettazione del proprio lutto, delle proprie possibilità e dei propri limiti. 
The Punisher è la serie sul Punitore. È totale. 
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