Cultura e Società

Servono nuove parole: il fallimento della legge sul copyright

Partiamo da una premessa necessaria. La recentemente rimandata direttiva europea sul copyright non è un consapevole tentativo di imbavagliare la libertà della rete ideato in una piccola stanzetta piena di fumo da parte di una cricca massonica di burattinai, andato storto solo grazie all’eroico intervento di paladini della libertà. No: quella direttiva è il prodotto dell’inadeguatezza di una classe politica che ha tentato, fallendo, di mettere in campo una soluzione ad un problema reale, senza minimamente rendersi conto delle conseguenze di tale decisione nello spettro più ampio del mondo di internet.
Il problema reale è quello del copyright, cioè della legittima e imprescindibile difesa del diritto che chi crea contenuto deve poter vantare su di esso. All’atto pratico ciò si traduce nel diritto a una giusta compensazione per il creatore qualora altri volessero utilizzare il suo contenuto. Sacrosanto, e anche piuttosto semplice.
Semplice, cioè, se stiamo parlando di creazione di contenuti “tradizionali”: un film, un libro, un album musicale. Estremamente complicato, invece, se prendiamo in considerazione internet, che sia per tipologia di contenuto, sia per canali di distribuzione è semplicemente un mondo a sé stante, con le sue regole, le sue dinamiche e le sue aspettative.
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Ciò che il fallimento (apparente e temporaneo!) di questa legge prova è che qualunque legge pretenda di regolamentare il diritto d’autore su internet semplicemente non può farlo utilizzando le stesse strategie e perfino lo stesso linguaggio di un tempo. Il copyright, come concetto, nasce innanzitutto per proteggere il diritto degli stampatori sulle opere che essi stampavano, ed è arrivato a proteggere gli autori a partire dal ‘700. Possiamo dire con tutta sicurezza che se il principio ispiratore di queste leggi è rimasto invariato, non è così per tutto il resto, dalla logistica della distribuzione alla forma che prende il contenuto. Pensate anche al nome stesso: “copyright”.
Il diritto di copiare qualcosa ha un significato quando l’atto della copia avviene secondo la tecnologia del XVIII secolo, ma deve necessariamente assumere un significato nuovo quando “copiare” è tanto facile quanto la pressione di due bottoni, e tanto potente da poter raggiungere l’intero pianeta istantaneamente e a costo zero.
Lo stesso concetto di “furto di contenuto” nel mondo di internet va completamente rivisto.
La viralità è un valore per chi crea contenuto, ma la viralità è, tecnicamente, la diffusione di materiale coperto dal diritto d’autore, senza alcun permesso esplicito e senza alcuna compensazione per l’autore stesso. Però all’autore in molti casi la cosa sta bene, perché è così che nell’epoca di internet ci si fa conoscere.
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E’ proprio dalla presunzione di voler regolamentare un mondo nuovo utilizzando schemi mentali e giuridici vecchi che è nata la direttiva sul copyright. Se ne è parlato tanto negli ultimi giorni, ma per rinfrescare velocemente la memoria, questa prevedeva due punti cruciali. Innanzitutto: qualunque piattaforma voglia citare, linkare o anche soltanto utilizzare come snippet parte di un articolo giornalistico preso da internet debba preventivamente munirsi di una licenza e compensare l’autore dell’articolo stesso.
Ad una prima lettura pare ragionevole: io ho scritto l’articolo, se tu vuoi utilizzarlo per dirottare traffico sul tuo sito mi devi qualcosa in cambio. Peccato che, nel mondo di internet, questo vada contro gli interessi degli autori emergenti, che invece vorrebbero farsi conoscere da quante più persone possibile, anche utilizzando grandi piattaforme social. Ma queste ultime, messe di fronte alla scelta di ospitare contenuto gratuito o a pagamento, difficilmente deciderebbero di pagare gli autori, come abbiamo già visto succedere in Spagna e in Germania dopo l’approvazione di leggi simili. Inoltre, penalizzerebbe il lavoro dei giornalisti seri, che immaginiamo più propensi a volere un compenso per il proprio lavoro, e faciliterebbe i venditori di bufale, a cui basterebbe non richiedere alcun compenso per poter viralizzare i loro contenuti.
Il secondo punto è l’articolo 13, che impone alle piattaforme di condivisione di contenuto di filtrare preventivamente tutto il contenuto che viene pubblicato, per prevenire la diffusione illecita di materiale protetto da copyright. Questo articolo ha due problemi. Il primo è operativo: quello di cui stiamo parlando è l’obbligo per qualunque piattaforma online di dotarsi di algoritmi e bot in grado di analizzare potenzialmente migliaia di item al giorno, ovvero la morte di qualunque startup volesse provare a lanciare sul mercato un nuovo social network senza avere a disposizione miliardi da investire in questa tecnologia. E il secondo è di principio: nessun algoritmo è in grado di distinguere fra contenuto protetto diffuso illegittimamente e un utilizzo legittimo dello stesso contenuto. Il sistema genererebbe quindi quasi certamente un’infinità di censure ingiuste ed irricevibili.
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Insomma: la legge, così com’è, non è liberticida e pericolosa perché è stata pensata tale. E’ liberticida e pericolosa perché il legislatore non ha la competenza necessaria per regolamentare un mondo che evidentemente non comprende.
Ora, grazie alla mobilitazione del popolo di internet, di Wikipedia, di esperti e luminari, la votazione è stata rimandata a settembre. Abbiamo collettivamente schivato un proiettile che, temiamo, farà ancora parlare di sé, almeno finché non avverrà un ricambio generazionale nelle stanze dei bottoni. Fino ad allora sarà bene tenere la guardia alta, stare vigili e supportare iniziative come quelle di Wikipedia, per quanto scomode possano essere.

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Gabriele Bianchi

Lettore, giocatore, conoscitore di cose. Storico di formazione, insegnante di professione, divulgatore per indole. Cercatelo in fiera: è quello con la cravatta.

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